Forma e figura di Cristo
18 maggio 2025
V domenica di Pasqua
Giovanni 13,31-35 (At 14,21-27; Ap 21,1-5)
di Luciano Manicardi
In quel tempo Gesù disse 31: «Ora il Figlio dell'uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in lui. 32Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito. 33Figlioli, ancora per poco sono con voi; voi mi cercherete ma, come ho detto ai Giudei, ora lo dico anche a voi: dove vado io, voi non potete venire. 34Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. 35Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri».
Tratta dal discorso di addio di Gesù, la pericope liturgica del vangelo della V domenica dell’annata C del tempo di Pasqua (Gv 13,31-35) presenta l’eredità, il dono e il compito che Gesù lascia ai suoi discepoli: l’amore, l’agape. “Amatevi come io vi ho amati”. Espresso in forma di comando, questo amore ha forma pasquale, cioè chiede un’uscita da sé da parte del discepolo per accogliere in sé la forma di Cristo, e “forma e figura di Cristo in noi è l’amore” (Cirillo di Alessandria). Vivere l’amore come Gesù l’ha vissuto significa partecipare alle energie del Risorto, passare dalla morte alla vita, significa confessare nelle relazioni quotidiane la fede pasquale. La prima lettura (At 14,21-27) dice che frutto della resurrezione è anche l’attività apostolica intensa svolta da Paolo e Barnaba: predicazioni, viaggi, servizi alle comunità dei fratelli, organizzazione della vita delle comunità stesse, e continui pericoli assunti come momenti integranti della vicenda di fede: infatti, “è necessario attraversare molte tribolazioni per entrare nel Regno di Dio” (At 14,22). La prospettiva pasquale è presente anche nella visione dell’Apocalisse (la seconda lettura: Ap 21,1-5) che mostra il compimento escatologico e universale dell’alleanza (“Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno suoi popoli”): il compimento della Pasqua è la fine di lutto, affanno, lamento, peccato e morte.
La pagina di Apocalisse presenta la visione (“Vidi un cielo nuovo e una terra nuova”: Ap 21,1) del rinnovamento escatologico del mondo e della Gerusalemme nuova che scende dal cielo. Questa Gerusalemme celeste diviene la tenda in cui Dio abita con gli uomini, con l’umanità intera, con tutti i popoli. La formula di alleanza che nel Primo Testamento proclamava la reciproca appartenenza tra Dio e Israele, suo popolo, ora viene estesa all’intera umanità, a tutti i popoli: “essi saranno suoi popoli” (Ap 21,3). Il plurale sembra indicare che ogni popolo è nella pienezza di comunione con Dio custodendo la propria peculiarità e specificità. Questo mondo radicalmente rinnovato vede la sparizione di tutto ciò che nella storia aveva afflitto e devastato l’esistenza degli umani: “non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno” (Ap 21,4). E Dio viene rappresentato come il consolatore che asciuga le lacrime da ogni volto. Anche le lacrime finiranno, anche il pianto scomparirà. Come noi sperimentiamo la fine dei nostri pianti, così la rivelazione biblica profetizza la fine del pianto. La nostra personale storia e la storia dell’umanità intera sono spesso storie scritte dalle lacrime, da pianti sommessi o angosciati, irrefrenabili o contenuti, pianti di disperazione e di sconforto, pianti che sono una pressante richiesta a Dio perché consoli, faccia giustizia, risani le ferite, mostri il suo volto, instauri per sempre e per tutti il suo regno di pace e giustizia. Le lacrime versate davanti a Dio sono preghiera che invoca: “Venga il tuo Regno!”. E invocando la venuta del Regno, invocano anche la propria stessa fine. Certo, il messaggio dell’Apocalisse suona per noi come un’utopia: dove mai nella storia vediamo la comunione dei popoli? Quando mai una storia, sia essa personale o collettiva, non è solcata da pianto e dolore? Eppure, proprio perché la potente e tenera immagine del Dio che terge le lacrime che solcano il viso degli umani dolenti, non può che nascere dalla concreta esperienza di chi tale opera di consolazione l’ha vissuta e compiuta, l’utopia in realtà ha conosciuto anticipazioni storiche, realizzazioni certo parziali, ma avvenute nel tempo e nello spazio, e che hanno toccato corpi e volti precisi. Dunque l’utopia ha conosciuto una geografia e una cronologia, dunque una storia. Ciò che l’Apocalisse ci mostra è la realizzazione piena, per sempre e per tutti, del sogno di Dio e dell’uomo. La visione del veggente di Patmos è la realizzazione piena della speranza. Ma questo compimento escatologico è stato preceduto da realizzazioni storiche, zone di realtà che hanno anticipato nell’oggi qualcosa di tale compimento. E tale utopia continua ad ispirare e a far nascere forme di realizzazione di tale comunione e solidarietà tra le genti, di tale fraternità e sororità universali: sono quelle che possiamo chiamare eu-topie. Ovvero dei luoghi, delle esperienze storiche, collettive, associative, che si caratterizzino per ciò che è significato e implicato dal prefisso “eu”, bene. Spazi di condivisione e convivialità, partecipazione e solidarietà, di scambio delle storie e delle narrazioni, che danno senso all’oggi e aprono al futuro; che mentre colmano di significato l’oggi delle persone e delle loro relazioni, indicano la direzione di cammino, la meta verso cui orientarsi. Le eutopie sono luoghi di salvezza dell’umano, dove la singola persona umana è considerata nella sua piena dignità per il suo semplice “essere umano”, prima assolutamente di qualsiasi specificazione o attributo. Nello spazio ecclesiale non sono forse eutopie le comunità alternative di cui parlava il Card. Martini nella Lettera Pastorale Ripartiamo da Dio (1995) intravedendo le comunità cristiane come luoghi al cui centro vi sono valori relazionali controcorrente rispetto alla mondanità: il servizio, il perdono, la cura dei più deboli e poveri, l’accoglienza, l’inclusione, la condivisione, la solidarietà? E il testo evangelico odierno, con il comando di Gesù sull’amore reciproco, sull’amare come lui ha amato, non ci fornisce forse l’indicazione basilare di ciò che deve caratterizzare quell’eutopia che è la comunità cristiana?
La pericope liturgica inizia con un grido di vittoria, un inno di giubilo. Gesù dice: “Il Figlio dell’uomo è stato glorificato” (Gv 13,31). In Gesù si è manifestata la gloria di Dio e per il IV vangelo la gloria di Dio è l’amore. E quando si è manifestata? E come? Quando Giuda è uscito dopo la cena fatta insieme. Giuda sembra uscire dalla stanza per obbedire a Gesù, per fare ciò che Gesù gli chiede: “Quello che vuoi fare, fallo presto” (13,27). In realtà Giuda esce perché era già lontano da Gesù, perché aveva lasciato che il suo cuore si distanziasse da Gesù e dagli altri discepoli, ha dato spazio alla non fede in Gesù e l’ha coltivata. Giuda non ha creduto all’amore. E l’unica maniera per rendere impotente Gesù è non fare spazio al suo amore, non far fiducia al suo amore. Giuda si è lasciato attrarre dal fascino della non fede, della tenebra: “Era notte” (13,30), annota Giovanni. È come se all’insaputa di tutti si svolgesse, nella comunità di Gesù, una storia segreta, una storia tra Gesù e Giuda, una storia che Gesù conosce, ma che resta nascosta agli altri discepoli. Gesù non svergogna il traditore, non lo smaschera, non lo ferma nemmeno, anzi lascia che conduca a termine il tradimento, e quasi lo sollecita ad andare in fretta fino in fondo. Il grido di vittoria nasce lì. Esprime il fatto che il male non ha soffocato l’amore, che il dolore e la delusione per il tradimento dell’amico non hanno impedito l’amore. L’amore vince il male; l’amore vince la morte di cui Giuda si fa portatore e ministro; Gesù gioisce perché la cattiveria e l’insipienza altrui non lo hanno contagiato, ma egli resta nell’amore. Uscito Giuda, ormai gli eventi incalzeranno, ma Gesù non ne sarà sorpreso. Egli obbedirà agli eventi che si succederanno e che come valanga precipiteranno, prodotti dalla banalità del male, da volontà incapaci di volere, da parole incapaci di dire, da corpi incapaci di amare, da gesti incapaci di contenere la propria violenza, da una verità da tutti tradita con la contraffazione e la menzogna. Ecco la gloria, custodirsi puro nell’impurità dilagante. Continuare ad amare, anche l’amico fattosi nemico, il discepolo divenuto traditore. Ecco la gloria di Dio, il manifestarsi di Dio, il suo farsi presente nella carne e nella storia umana. Che così spesso è storia di disumanità. Questa vittoria dell’amore sul male è anticipazione, agli occhi di Gesù, della vittoria della resurrezione che di lì a poco attraverserà la sua vita e vivificherà la sua morte. E per non lasciare soli i suoi discepoli, sapendo che ormai dove lui va essi non possono venire, Gesù lascia loro un’eredità, che non è un oggetto, ma un’indicazione di via, una parola da vivere. Lascia loro il comandamento nuovo: “Amatevi gli uni gli altri” (13,34). Solo così essi (e noi con loro) potranno essere là dove è anche il loro Signore. Solo così il Signore risusciterà in mezzo a loro. Scrive Gerolamo: “Se questo fosse anche l’unico comando del Signore, basterebbe”. È il comando che egli dona prima di morire, prima di intraprendere il viaggio finale. Cosa vuole Gesù che resti di lui? L’amore dei discepoli. Vuole che restino dei discepoli capaci di amarsi, dunque di assumere l’ascesi, il rigore, la disciplina e anche la follia e l’eccesso dell’amore. Dove disciplina e rigore, così come follia ed eccesso, rinviano a quel: “Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri”. Trovate in me, nella mia vita, il fondamento e la misura dell’amore da assumere nelle vostre vite. In verità ciò che Gesù lascia è la sua vita e il suo esempio, la sua pratica di umanità che ci insegna a vivere insegnandoci ad amare. Sì, Cristo risuscita nell’amore che i discepoli vivono nella storia.