Il cuore custodito
10 agosto 2025
XIX domenica nell’anno
Luca 12,32-48 (Sap 18,3.6-9)
di Luciano Manicardi
In quel tempo Gesù disse:" 32Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno. 33Vendete ciò che possedete e datelo in elemosina; fatevi borse che non invecchiano, un tesoro sicuro nei cieli, dove ladro non arriva e tarlo non consuma. 34Perché, dov'è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore. 35Siate pronti, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese; 36siate simili a quelli che aspettano il loro padrone quando torna dalle nozze, in modo che, quando arriva e bussa, gli aprano subito. 37Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli. 38E se, giungendo nel mezzo della notte o prima dell'alba, li troverà così, beati loro! 39Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora viene il ladro, non si lascerebbe scassinare la casa. 40Anche voi tenetevi pronti perché, nell'ora che non immaginate, viene il Figlio dell'uomo».
41Allora Pietro disse: «Signore, questa parabola la dici per noi o anche per tutti?». 42Il Signore rispose: «Chi è dunque l'amministratore fidato e prudente, che il padrone metterà a capo della sua servitù per dare la razione di cibo a tempo debito? 43Beato quel servo che il padrone, arrivando, troverà ad agire così. 44Davvero io vi dico che lo metterà a capo di tutti i suoi averi. 45Ma se quel servo dicesse in cuor suo: «Il mio padrone tarda a venire» e cominciasse a percuotere i servi e le serve, a mangiare, a bere e a ubriacarsi, 46il padrone di quel servo arriverà un giorno in cui non se l'aspetta e a un'ora che non sa, lo punirà severamente e gli infliggerà la sorte che meritano gli infedeli.
47Il servo che, conoscendo la volontà del padrone, non avrà disposto o agito secondo la sua volontà, riceverà molte percosse; 48quello invece che, non conoscendola, avrà fatto cose meritevoli di percosse, ne riceverà poche. A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto; a chi fu affidato molto, sarà richiesto molto di più.
Il brano del libro della Sapienza che costituisce il passo veterotestamentario di questa domenica (Sap 18,3.6-9) presenta una rilettura degli eventi dell’esodo, in particolare, nei vv. 6-9, della notte pasquale. L’espressione “quella notte” di Sap 18,6 (ekeíne e nýx) si trova tale e quale solo in Es 12,42 LXX a indicare appunto quella notte diversa da tutte le altre, la notte pasquale, la notte della salvezza per antonomasia. Ebbene, in quella notte i figli d’Israele ebbero “come guida di un viaggio sconosciuto” (Sap 18,3) “una luce grandissima” (18,1), donata da Dio: una colonna di fuoco che è un sole che non nuoce (18,3) come potrebbe nuocere il sole in pieno giorno. E che il viaggio aspro e difficile dell’esodo dall’Egitto sia anche “sconosciuto” è legato al fatto che Dio fece fare ai figli d’Israele non la via più breve, ma un’altra strada (Es 13,16-17). E se nell’esodo Dio guidò il suo popolo “come un gregge” (Sal 77,21), il testo evangelico di questa domenica dice che il “piccolo gregge” (Lc 12,32) dei discepoli di Gesù è anch’esso chiamato a tenersi desto e pronto, “i fianchi cinti e le lucerne accese” (Lc 12,35; cf. Es 12,11), per compiere il viaggio notturno, il nuovo esodo, verso la luce e la salvezza (Lc 12,32-48). Alla veglia di coloro che attendono la salvezza dei giusti (Sap 18,7) corrisponde, nella parabola evangelica, l’attesa di coloro che, svegli, si tengono pronti ad accogliere il padrone che torna dalle nozze, la vigilanza dei discepoli che tengono viva la fiamma dell’attesa del Signore credendo, nonostante tutto, alla promessa della sua venuta (Lc 12,35-40). Il legame tra prima lettura e vangelo è riscontrabile anche nel comune riferimento alla sapienza. La colonna di fuoco che guida l’esodo dei figli d’Israele dall’Egitto è identificata alla sapienza in Sap 10,17 (“[essa] li guidò per una strada meravigliosa, divenne per loro riparo di giorno e luce di stelle nella notte”) e “il tesoro nei cieli” (Lc 12,33) di cui parla Gesù è immagine della sapienza che va preferita, come ricchezza superiore e inarrivabile, a oro e argento, perle e preziosi (Pr 3,13-15; 8,10-11): “Fa’ elemosina dei tuoi beni … In proporzione a quanto possiedi fa’ elemosina, secondo le tue disponibilità; se hai poco, non esitare a fare elemosina secondo quel poco. Così ti preparerai un bel tesoro per il giorno del bisogno, poiché l’elemosina libera dalla morte e impedisce di entrare nelle tenebre” (Tb 4,7-10).
Della prima lettura vale la pena sottolineare il fatto che, in linea con testi come Dt 16,5; Es 12,21 e Es 12,27: “È il sacrificio della Pasqua per il Signore”, la Pasqua viene vista come sacrificio (Sap 18,9), ma un sacrificio offerto da tutto il popolo, a sottolinearne il carattere sacerdotale. Nel contesto della notte pasquale si parla di un “patto” (traduzione probabilmente da preferire a “legge”) sancito dai figli d’Israele così che la dimensione celebrativa si connette a una concreta dimensione di solidarietà e fraternità che unisce l’intero popolo. I “santi canti dei padri” (cioè gli inni e le preghiere ricevuti in eredità dai padri, forse l’Hallel pasquale), dunque la dimensione liturgica, si accompagna all’impegno intracomunitario che porta i figli d’Israele a condividere i beni e i rischi. E, come annota Maurice Gilbert, “è curioso constatare che i figli d’Israele non si impegnano direttamente verso Dio, ma … tra di loro, ossia alla partecipazione comune ai beni e ai pericoli, in tutte le prove che avrebbe provocato loro l’uscita dall’Egitto”.
La pericope evangelica si apre con l’invito che Gesù rivolge ai discepoli a “non temere”. Unita all’appellativo denso di affettuosa tenerezza “piccolo gregge”, l’esortazione suona come consolazione e invito all’abbandono confidente, in piena continuità con le esortazioni a “non preoccuparsi (v. 22), ... non inquietarsi (“non state a domandarvi”: v. 29), … non essere in ansia (v. 29)” fondate sulla cura provvidente di Dio che si manifesta nel mondo della natura. Siamo qui di fronte allo sguardo di Gesù capace di contemplazione, di imparare dagli uccelli del cielo e dall’erba del campo, dai gigli e dai corvi. E la tenerezza dello sguardo di Gesù si manifesta nel paragonare i pochi e poveri suoi discepoli a un gregge, al gruppo mite di pecore che abbisogna di guida, nutrimento, orientamento. E se subito dopo chiede ai discepoli vigilanza e sobrietà (vv. 35-48), così come altrove chiede di pregare per chi li maltratta, di amare il nemico, di far del bene a chi li odia, di benedire chi li maledice (Lc 6,27-28), di amarsi gli uni gli altri (Gv 13,34), di farsi servi di tutti nella comunità (Mc 10,43-44), Gesù chiede anche di “guardare i corvi … di guardare come crescono i gigli” (Lc 12,24.27), di “osservare gli uccelli del cielo” (Mt 6,26) di “imparare la parabola dalla pianta di fico” (Mc 13,28). Colui che formula il comando di amare il nemico è lo stesso che chiede di contemplare gli animali, i fiori e le piante. Sono scindibili i due aspetti? O non devono piuttosto essere integrati? Unico è il cuore di chi pronuncia quelle parole e, se anche alcune sono eticamente più impegnative, non per questo si devono sminuire o trascurare le altre. Lo sguardo contemplativo sulla natura insegna la dimensione simbolica del reale e diviene sguardo che trasfigura il reale, o meglio, lo vede in profondità. E come Gesù vede la cura di Dio che nutre i corvi che non seminano e non mietono, così vede il suo esiguo e anche mondanamente inconsistente e insignificante gruppo di seguaci, quale piccolo gregge destinatario del dono di Dio: “al Padre vostro è piaciuto dare a voi il regno” (v. 32). Proprio quella piccolezza abitata dalla fede rende i discepoli di Gesù il luogo dove Dio può regnare. E perché il regnare di Dio possa sempre più trasparire nel gruppo dei discepoli, ecco che Gesù esorta alla liberalità, alla generosità, al dare in elemosina: condividere i beni è per Luca un segno concreto del regnare di Dio nella comunità dei credenti. Poco prima Gesù aveva messo in guardia dall’accumulare tesori per sé e non arricchire davanti a Dio (12,21), ora invita a crearsi un tesoro nei cieli, non ad arricchire su questa terra accumulando beni che illudono solamente di sicurezza, esposti come sono al logoramento e alla precarietà.
Qual è il nesso che unisce questi ammonimenti (vv. 33-34) alle parabole successive centrate sul tema della vigilanza in vista della venuta del Signore (vv. 36-38; 39-40; 42-46)? Non è facile vivere l’attesa: essa assomiglia a un vuoto che sentiamo il bisogno di colmare per placare l’ansia e l’angoscia, l’horror vacui. Del resto la venuta nella gloria del Signore è l’articolo di fede che ha meno impatto nella vita concreta dei credenti (Ignazio Silone scrisse che i cristiani attendono il Signore con la stessa indifferenza e noia con cui aspettano il tram) i quali, nelle faccende secolari, soprattutto nella gestione di denaro e beni, si comportano sostanzialmente come tutti gli altri. Ora, come i figli d’Israele non seppero sostenere il prolungarsi dell’assenza di Mosè salito sul Sinai e si fabbricarono il vitello d’oro (Es 32,1), simbolo combinato di ricchezza e di potere, così i cristiani possono non sopportare la non-venuta del Messia e divenire idolatri assolutizzando le cose penultime (anzitutto denaro e ricchezze) e finendo nel disordine e nell’aggressività, nella violenza e negli eccessi (Lc 12,45). Dove si situa il punto di equilibrio? Nella vigilanza: essere pronti e svegli (vv. 35.37.40), intenti al proprio compito e dediti al proprio servizio (v. 43). È grazie alla vigilanza che il cuore viene custodito nell’essenziale, resta attento al Signore, non si lascia tiranneggiare dai pensieri che lo distraggono e gli fanno deviare il cammino. E se il tesoro dell’uomo è là dove si trova anche il suo cuore (v. 34), ecco che la vigilanza, che è rapporto equilibrato con se stessi, con il proprio corpo, con le cose, con gli altri, con Dio, è l’atto fondamentale che consente al credente di vivere con equilibrio l’oggi nell’attesa del Signore, la storia nella prospettiva escatologica. Colui invece che si lascia andare e si ottunde, smarrendo lucidità e presenza a se stesso, arriva a stravolgere anche il rapporto con gli altri lasciando campo aperto a forze disgreganti e distruttive. Gesù ne fornisce un esempio parlando del servo che, “dicendo in cuor suo ‘il mio padrone tarda a venire’, comincia a percuotere i servi e le serve, a mangiare, a bere, a ubriacarsi” (v. 45).
Il Signore proclama beato il servo che, alla sua venuta, sarà trovato intento al suo servizio (v. 37). Ovvero il servo che trova la sua gioia nel servire i fratelli e le sorelle. Chi ama, ama servire le persone amate. E per lui è una gioia anche se costa fatica. Ma ecco la sorpresa: i servi fedeli che il Signore alla sua venuta troverà vigilanti vedranno il Signore stesso farsi loro servo (v. 37) nel banchetto escatologico. Sorpresa, in realtà, fino a un certo punto. Infatti, il rovesciamento dei ruoli riprende ciò che il Signore Gesù ha sempre fatto durante tutta la sua vita: farsi servo dei suoi servi. “Chi è più grande? Chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve” (Lc 22,27).